Il 23 ottobre si è tenuta, presso la sala congressi dell’Hotel Dante di Lugano, una partecipata conferenza organizzata dall’Istituto Liberale e animata da diversi ospiti di qualità. Temi della serata: la tecnologia blockchain, la sua applicazione nel Bitcoin e le prospettive di successo (o insuccesso) delle criptovalute. Paolo Pamini, vicepresidente del comitato, ha aperto i lavori presentando il moderatore Giancarlo Dillena, docente all’Università della Svizzera Italiana e già direttore del Corriere del Ticino, ed il primo relatore dell’incontro: Giacomo Zucco, fisico teorico di formazione ed esperto della teoria informatica e matematica alla base della tecnologia blockchain.
Giacomo Zucco ha iniziato il suo intervento con un breve ammonimento a non considerare Bitcoin come un’innovazione primariamente economica, quanto politica: è la naturale evoluzione, ideologicamente vicina a pensatori come Ludwig von Mises e Friedrich Hayek, di quel movimento cypherpunk che già alla fine del secolo scorso tentava di orientare le nuove tecnologie crittografiche al servizio degli individui e di mantenerle al riparo da manipolazioni politiche e giochi di potere. La blockchain si basa su un software open source e crittografato, ma la sua principale innovazione è quella di basare il suo funzionamento su di una rete peer-to-peer anziché su dei classici sistemi client/server.
Il relatore ha poi riportato una panoramica sugli strumenti informatici preesistenti di cui la tecnologia blockchain s’è avvalsa: la firma digitale, che rende unica ogni transazione di informazioni sulla rete attribuendole un hash casuale, e la proof-of-work, che codifica le transazioni dietro ad algoritmi complicati che vanno rielaborati per poter accedere ai dati cifrati. Implementando tutto ciò su un registro pubblico aggiornato, s’è potuto arrivare al grande traguardo di una scarsità digitale, dove l’informazione acquisisce valore perché determinate stringhe di codice diventano fruibili solo investendo tempo e potenza computazionale nella loro decrittazione. Rimase ancora il problema del double-spending, cioè dell’impossibilità, nel caso di transazioni analoghe, di determinare in maniera fissa a quale richiesta dare la precedenza. Satoshi Nakamoto brevettò la tecnologia blockchain proprio scavalcando questo ostacolo con l’intuizione di concatenare gli hash associati a ciascuna transazione in modo tale che ogni nuovo trasferimento debba portare con sé le impronte di tutte le precedenti: il proof-of-work, di volta in volta, esige che il richiedente si rifaccia ai dati incastonati nel registro pubblico e possa provare la validità della sua richiesta. Ogni ipotetica contraffazione o frode è resa impossibile.
La parola poi è passata a Francesco Forti, biologo che si interessa da anni al mining di Bitcoins, ovvero all’operazione di investire potenza di calcolo per risolvere i proof-of-work dei trasferimenti e dunque far procedere la blockchain. I minatori calcolano i propri costi sulla base dei loro costi materiali (elettricità, tempo…) e vengono remunerati tramite degli incentivi, sbloccati dal sistema stesso, per quei terminali che riescono ad elaborare casualmente gli hash adatti a comporre i blocchi successivi. La tecnologia è pensata per dimezzare la mole degli incentivi e per innalzare la complessità delle operazioni necessarie, così da limitare la creazione di nuova criptovaluta ed evitare problemi di iperinflazione. I minatori, col tempo, sono spinti a formare delle imprese, le mining pool, che raccolgono l’investimento totale dei partecipanti e lo convergono verso operazioni sulla stessa catena.
L’intervento di Forti non è stato privo di un’analisi su alcuni possibili problemi, come per esempio il fenomeno per cui alcuni miner sono incentivati a lavorare su nuove catene per poter abbassare gli investimenti e poi a convertire il valore nella criptovaluta madre, portando a una svalutazione generale; la dipendenza delle condizioni degli investimenti materiali dal destino delle monete tradizionali; o il pericolo che un unico minatore riesca a monopolizzare più del 51% della paternità delle transazioni sbloccate, cosa che renderebbe nel suo interesse scacciare i suoi colleghi per assorbire tutti i premi del sistema, di fatto inceppandolo.
Questi punti hanno guidato i due interventi successivi: Giovanni Baroni Adesi, professore ordinario di economia all’Università della Svizzera Italiana, ha esposto alcune ragioni per dubitare che il Bitcoin sia qualcosa di più che l’ennesima bolla finanziaria, mentre Roberto Gorini, economista, saggista e imprenditore, ha preso le difese del Bitcoin e delineato un radioso futuro per questa tecnologia. Adesi, collegandosi alla relazione precedente, ha sottolineato come il rischio della monopolizzazione del mining sia più concreto di ciò che sembra: nonostante oggi l’80% circa dei minatori sia raccolto in mining pool, esistono già prototipi di computer quantistici che sarebbero in grado di assorbire il 51% della potenza necessaria. Secondariamente, con una media di 8 transazioni autorizzate al secondo ed una complessità programmatica crescente è difficile pensare che il Bitcoin potrà mai essere un agile strumento di scambio commerciale oltre che di speculazione. Inoltre, la blockchain non è del tutto immune da influenze e regolamentazioni governative: è possibile che gli stati sanzionino le aziende che offrono piattaforme di scambio o di mining, nazionalizzino le stesse operazioni di mining, o altro. Per ultimo, ma non per importanza, la pretesa di anonimità del sistema rende difficoltoso rintracciare e punire eventuali soggetti che attacchino gli utenti oppure aggirino il sistema attraverso i bug che sono ancora presenti o che possono apparire in futuro.
Le vivaci obbiezioni di Roberto Gorini a queste critiche hanno innanzitutto posto l’accento, a titolo di premessa, sul fatto che la tecnologia blockchain è un sistema ancora perfettibile e che sta tuttora raccogliendo varie proposte che ne possono migliorare una serie di aspetti. Per esempio, c’è chi suggerisce un sistema proof-of-stake che potrà rendere il mining molto meno dispendioso e quindi meno monopolizzabile. Sulla stessa lunghezza d’onda, la soluzione detta Lightning Network si propone per cercare rendere la tecnologia blockchain molto più dinamica e versatile, permettendo più transazioni autorizzate al secondo e quindi un’utilità maggiore per gli scambi. Gorini ha poi ribattuto sul problema della tracciabilità dei criminali, citando l’arresto di coloro che misero online il famoso malware WannaCry. In conclusione, il professore ha ammesso che la maggioranza delle criptovalute correnti sono probabilmente delle bolle finanziarie, lasciando però alla nutrita platea un quesito da porsi: che bolla più grande c’è mai stata delle monete tradizionali come il dollaro?
Agli interventi è seguito un dibattito dinamico e partecipato che ha permesso di approfondire altri nodi della questione. Si sono toccate, per esempio, le prospettive per Bitcoin di diventare in futuro una riserva di valore stabile oppure, eventualmente, di lasciare il passo a reinterpretazioni della tecnologia blockchain che si saranno rivelate economicamente migliori — andando, in questo, anche a scoperchiare quesiti filosofici su cosa sia a dare valore ai vari tipi di moneta in circolazione. S’è successivamente provato ad immaginare il futuro del criptomercato: una diffusione unica di Bitcoin o della criptovaluta più solida, oppure un mix di proposte in concorrenza tra di loro, affiancate magari dalle monete tradizionali in forma più o meno digitalizzata?