Il 9 aprile 2024 l’Istituto Liberale ha organizzato l’evento Free speech e regolazione della rete. Una prospettiva liberale, in collaborazione con Students For Liberty Svizzera e LPU (Law and Politics in USI). Al centro della serata c’è stata una discussione su come i sistemi giuridici odierni dovrebbero rispondere alle sfide che la digitalizzazione e la globalizzazione telematica offrono nei confronti del diritto d’espressione. Da un punto di vista liberale, l’inalienabile diritto alla libertà di parola e d’espressione si scontra sempre di più oggi con un’opinione pubblica sensibile ai temi delle disuguaglianze sociali nell’era dell’informazione e con una volontà politica di approfittarsi di questi movimenti per imporre censure e limitazioni sempre più pesanti ai cittadini.
Dopo una breve presentazione di Carlo Lottieri, presidente della sezione italofona dell’Istituto Liberale, ha preso la parola il relatore principale della serata: Riccardo de Caria, professore presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino. Uno dei primi punti affrontati è la trasformazione che i mezzi di informazione, e di conseguenza la comunicazione sulle varie piattaforme social e i media, hanno portato in vari campi sociali. Questo si vede a partire, per esempio, dalla formazione di movimenti sociali internazionali attraverso le piattaforme online, fino alla preoccupazione da parte dei governi nei confronti del ruolo che i social media hanno giocato nelle elezioni politiche in alcuni Paesi, fino alla massima espressione di questo fenomeno che è stato il coinvolgimento dei social media nella comunicazione intorno alla crisi del Covid-19. Questi profondi cambiamenti hanno effettivamente impattato la direzione aziendale di tutte queste piattaforme, che hanno cominciato sempre più a subire pressioni politiche nella scelta dei contenuti che vogliono permettere nelle proprie comunità. Tanto è, per esempio, il tema di un prossimo caso giuridico che verrà discusso nello Stato del Missouri, in cui una nota piattaforma online ha citato in giudizio il governo federale a causa delle pressioni subite per censurare presunte fonti di disinformazione durante la pandemia.
Il punto più difficile da affrontare è che il fenomeno non è semplicemente un conflitto binario tra le piattaforme social e i governi. Questa collaborazione tra nuovi mezzi di comunicazione e la sfera politica è stata una storia di consenso, ovvero sembra che molte piattaforme abbiano accettato di buon grado, nonostante siano società completamente private, il loro nuovo ruolo di veicoli per la libertà di parola e d’espressione nell’era digitale. Inoltre, va considerato che, a quanto sembra, questa sinergia tra politica e nuovi media si sia svolta esplicitamente a favore di ali politiche più vicine alla sinistra, o in America al partito democratico, e contro a posizioni conservatrici o repubblicane. Se questa sensazione condivisa da vari analisti fosse vera, questo sarebbe un serio problema di gestione dell’influenza politica sull’opinione pubblica. Dall’altra parte, questo ha stimolato, sempre in America, i parlamenti di alcuni Stati a proporre delle anti-deplatforming laws per costringere i social media a mantenere un’atteggiamento neutrale e bilanciato nell’utilizzo dei sistemi di shadowbanning dei contenuti sulle proprie piattaforme. Tutto ciò parla dell’inalienabile diritto di poter esprimere la propria opinione non solo in termini consoni, ma anche presentando posizioni che possono spaziare su tutto lo spettro politico. Quali possono essere le conseguenze di questa ibridizzazione verso il pubblico di aziende private che, per loro stessa natura, sono prone ad attirare su di sé così tanta rilevanza sociale e politica?
Sicuramente, uno dei punti più problematici della collusione tra politica e social media è la violazione del principio della concorrenza delle idee. Laddove sia interesse di certe categorie politiche di promuovere e difendere un certo orientamento ideologico, a scapito di un altro che viene tendenzialmente moderato o addirittura censurato, questo compone già di per sé una violazione della libertà d’espressione dei cittadini – ancor prima che si configurino vere e proprie forme di censura di opinioni particolari. Allo stesso tempo, trattare questa ingiustizia che minaccia strutturalmente la libertà d’espressione ancora prima della censura imposta esplicitamente dai governi (per esempio, la rimozione di un post o il divieto di parlare di una certa tematica) è qualcosa che ci impone di riflettere sul diritto di proprietà in quanto fondamento della teoria liberale stessa. Non c’è dubbio che le piattaforme online, nella loro collusione con forze politiche anche malintenzionate, non stanno facendo altro che esercitare dominio su ciò che è il loro prodotto e approfittandosi di informazioni, quali i dati personali degli utenti, che hanno regolarmente ottenuto e di cui dunque possono legalmente disporre.
Come si può dunque intervenire per evitare queste distorsioni così pericolose dell’autonomia privata senza minare la sacrosanta validità del monopolio legittimo che ciascun social media ha sulla propria piattaforma? Innanzitutto, bisogna capire cosa c’è di speciale nella libertà d’espressione online. L’avviso del relatore è che, nonostante le specificità del caso, le categorie tradizionali e riconosciute da secoli per difendere il diritto di parola degli individui rimangano perfettamente valide. D’altra parte, è innegabile che l’interazione malevola tra piattaforme private e istituzioni sia segnata da una novità senza precedenti: l’assenza totale di limitazioni fisiche a quante persone possono essere raggiunte dal messaggio che un cittadino qualunque vuole recapitare: non più manifestando in piazza, ma alla luce dei dispositivi di tutti gli utenti su internet. Per gli stessi motivi, i governi non possono più permettersi di censurare e reprimere la libertà d’espressione in maniera fisica e coercitiva, per esempio arrestando le persone che manifestano sul fatto o bandendo libri. Questa fuoriuscita da entrambe le parti dai binari tradizionali ha spinto le istituzioni ad allearsi con i facilitatori della comunicazione online, anziché ostacolarli, per estendere il loro controllo sulla società. Altro interessante risvolto dello stesso fenomeno è il fatto che sempre più spesso, nell’opinione pubblica, chi è colpevole di censura non è più la politica quanto i privati che stanno dietro alle piattaforme.
Questa insistenza sul ruolo delle piattaforme come mediatrici, e questa loro colpevolizzazione da parte di chi si sente discriminato dalla diffusione di certa disinformazione, ha ribaltato completamente una facile assunzione economica che poteva essere fatta sul loro ruolo nella comunicazione online. Infatti, sarebbe intuitivo pensare che sia vantaggioso per i social media cercare di proteggere il più possibile la libertà d’espressione dei propri utenti: d’altronde, più contenuti vengono offerti sulla piattaforma, maggiore è la varietà disponibile, e soprattutto quanto più sono provocatori nei toni o nei contenuti, allora tanto più ci si aspetterebbe che gli utenti possano essere spinti a stare sulla piattaforma e interagirvi, generando così maggiori profitti. Questo è tanto più vero dopo che, nell’era Clinton, gli Stati Uniti avevano approvato una riforma fondamentale (di poco precedente alla nascita dei primi social media) atta proprio a sollevare da ogni responsabilità le piattaforme online dai contenuti inseriti dagli utenti. Secondo molti giuristi, proprio questa riforma sarebbe stato lo stimolo che spiega come mai queste piattaforme siano nate proprio negli Stati Uniti e non altrove. Forse è stata proprio questa sinergia e collaborazione creatasi tra istituzioni e piattaforme che, per quanto nata in buona fede, ovvero per proteggere la libertà d’espressione degli stessi utenti, potrebbe aver spinto poi ad alleanze nei fatti contrarie all’interesse dei cittadini.