Nel dibattito fiscale è popolare la concezione per la quale le società, o l’economia in generale, e i cittadini debbano spartirsi in parti congrue la responsabilità di finanziare la spesa pubblica. Le affermazioni di coloro che accusano le società di non contribuire quanto dovuto allo sforzo comune poggiano precisamente su questa dicotomia artificiosa. Di recente, questo genere d’accuse sono state particolarmente veementi nei confronti delle multinazionali e delle loro pratiche, perfettamente legali, di ottimizzazione fiscale. Questo ha spinto l’OCDE e il G20 ad elaborare dei progetti di lotta contro l’erosione della base imponibile con l’obiettivo di far pagare a queste società “la loro giusta parte”. Tali progetti si basano sul presupposto che esercitare una pressione fiscale sufficientemente elevata sulle società sia giusto e desiderabile. Tuttavia, non c’è alcunché d’evidente in questo presupposto. Un recente studio realizzato da Pierre Bessard e Fabio Cappelletti, rispettivamente direttore e ricercatore associato dell’Istituto Liberale, per l’Istituto per le Ricerche Economiche e Fiscali (IREF) mette precisamente a nudo i limiti dell’imposizione dei benefici delle società dal punto di vista della morale e dell’efficienza economica.
In primis, i due autori valutano i meriti di due argomenti morali spesso mobilizzati per giustificare l’imposizione delle società. Mentre il primo afferma che essa è necessaria per far pagare alle società i servizi statali dei quali esse beneficiano, il secondo asserisce che le società devono essere tassate come le persone poiché dispongono di una capacità contributiva propria. Questi due argomenti devono essere respinti perché le società, pur essendo spesso ingannevolmente etichettate come persone “morali”, non sono delle persone reali, ma bensì un insieme di contratti che legano tali persone tra loro. In particolare, il valore creato dalle società è, prima o poi, riversato a delle persone nella forma di dividendi, salari o interessi. Poiché queste persone pagano un’imposta sul reddito, esse contribuiscono già al finanziamento dei servizi statali dei quali beneficiano le società attraverso le quali queste persone realizzano una parte del loro reddito. Pertanto, l’imposizione delle società genera un’imposizione multipla. Tassare le società significa infatti ridurre i dividendi versati agli azionisti, dividendi ai quali lo Stato attingerà nuovamente con l’imposta sul reddito. Inoltre, molti economisti hanno pure dimostrato che l’imposizione delle società non penalizza solo gli azionisti, ma va anche ad incidere negativamente sugli stipendi dei lavoratori e sui prezzi pagati dai consumatori.
Per alcune persone un’imposta ingiusta potrebbe trovare comunque la sua ragione d’essere nella promozione di una più grande efficienza economica. Tuttavia, questo non è il caso dell’imposizione delle società. Prendendo spunto dalle riflessioni dell’economista classico Frédéric Bastiat su “ciò che si vede e ciò che non si vede in economia politica”, Bessard e Cappelletti ricordano infatti i costi occulti delle molteplici distorsioni generate da questa imposizione. Per cominciare, essa nuoce all’economia perché disincentiva gli investimenti e, a causa della sua complessità, spinge le società a dedicare parte delle loro risorse limitate a attività non produttive come l’elusione fiscale o il lobbying per ottenere dei trattamenti di favore dal legislatore. Inoltre, la prospettiva di una doppia imposizione spinge alcune ditte che dal punto di vista economico beneficerebbero della forma giuridica di società anonima (o a garanzia limitata) a rimanere invece delle ditte individuali. Infine, il trattamento fiscale più favorevole spesso riservato al ricorso al debito rispetto all’utilizzo del capitale proprio incentiva le società a indebitarsi più di quanto sarebbe economicamente ottimale e a scegliere, per delle ragioni puramente fiscali, di investire principalmente in attivi tangibili più facilmente finanziabili attraverso il debito.
In definitiva, nel loro studio gli autori dimostrano che l’imposizione delle società non è soltanto ingiusta, ma pure una fonte importante d’inefficienze. Sopprimere completamente questa imposizione, limitandosi così alla sola imposizione dei redditi derivati dalle persone fisiche dalle attività delle società, avrebbe dei benefici immediati per l’economia e, quindi, per la prosperità di ogni cittadino.
Leggere il rapporto completo (in inglese) sul sito dell’IREF:
Taxing corporations: why it is not only bad, but unjust
(20 pagine, PDF)