Con la recente approvazione, da parte del Gran Consiglio, del referendum finanziario obbligatorio (cosicché, dinanzi a spese di rilevanti dimensioni, sarà sufficiente che la richiesta di un voto popolare sia sostenuta da un terzo dell’assemblea, in un numero minimo di 25) è ragionevole attendersi che in varie circostanze si avranno decisioni più sagge e oculate nella gestione cantonale. Grazie a questa misura, talune scelte irragionevoli e onerose potranno essere bocciate e, soprattutto, quanti hanno la responsabilità di governare saranno più prudenti e accorti, proprio per non subire la sconfessione delle urne.
Con l’approvazione di tale legge — che a giunge a seguito del referendum di settembre — il rischio che le risorse prese ai contribuenti siano usate per iniziative irragionevoli, nelle quali i costi sono maggiori dei benefici, certamente non scompare, ma si riduce. La relazione tra i rappresentanti e i rappresentati finisce allora per essere rafforzata da tale meccanismo, volto a frenare la spesa e a consolidare il controllo popolare sulle decisioni assunte da chi governa.
Questa positiva novità concernente la scena pubblica ticinese è però stata resa possibile dal fatto che, nel quadro svizzero, abbiamo un felice incontro tra federalismo e democrazia diretta, autogoverno delle piccole comunità e spirito partecipativo.
Com’è ben noto e altresì abbastanza ovvio, non sempre la democrazia produce esiti positivi. Alla fine, le urne si limitano a prendere atto di quelli che sono gli umori e i valori (ma anche i disvalori) prevalenti all’interno della società. Nell’Europa degli anni Trenta la volontà espressa dalla maggioranza portò all’affermarsi del fascismo in Italia e del nazismo in Germania. Quando però la democrazia ha luogo entro piccole realtà cantonali e comunali quei rischi sono minimizzati e la partecipazione può esprimere il meglio di sé.
La norma introdotta ora in Ticino, presente da tempo in numerosi altri cantoni, può aiutare a cogliere come vi sia nell’ordinamento elvetico e nella cultura politica di questo Paese una saggezza da riconoscere e difendere. Per giunta, difficilmente di questo referendum obbligatorio si sarebbe parlato, fino ad arrivare al voto di settembre, se nella Svizzera interna questa regola non ci fosse già stata.
In talune circostanze la democrazia può allora degenerare in demagogia: in quella spregiudicatezza politica che già la filosofia classica aveva aspramente denunciato. Ma al tempo stesso — ed è questo il caso — il ricorso all’opinione pubblica può essere utile, specie entro comunità di limitate dimensioni, per contrastare la costante vocazione della classe politica a espandere il suo potere.
In tal maniera, la società civile esercita una funzione di controllo veramente cruciale ed è interessante che non ci sia neppure bisogno che i cittadini vengano chiamati a esprimersi perché questa legge sortisca i suoi effetti: la semplice possibilità che ciò avvenga indurrà quanti amministrano la cosa pubblica a comportarsi meglio. Sotto certi aspetti, s’è rafforzato un meccanismo già molto ben funzionante, che in varie circostanze vede il popolo agire quale autentica opposizione dinanzi al ceto politico.
Questo è un punto cruciale. La possibilità di un tale voto non soltanto consolida quello spirito partecipativo elvetico che induce a seguire da vicino quanto avviene nelle stanze della politica e a essere costantemente informati sulle decisioni assunte. La democrazia diretta permette anche — una cosa cruciale di fronte a forme di governo “direttoriali” — che il popolo incarni il ruolo di una costante opposizione potenziale dinanzi alla classe politica e ai partiti: ed è questa una situazione da cui gli eletti stessi hanno molto da guadagnare.
Carlo Lottieri è il presidente della sezione italofona dell’Istituto Liberale.