Le istituzioni su cui si regge la vita associata non hanno una realtà concreta e fisica, ma semmai astratta e immateriale. Certamente esistono palazzi del potere anche monumentali, tribunali nel centro delle città, poliziotti bene equipaggiati e funzionari incaricati di vigilare sul rispetto delle norme, ma tutte queste realtà assai visibili acquisiscono il loro significato soltanto in virtù di idee molto generali e, per tanti aspetti, quasi inafferrabili.
È per questa ragione che in ogni società illiberale la perdita di ogni diritto fondamentale si deve non tanto (e in primo luogo) all’esistenza di armi e di altri dispositivi in grado di minacciare i nostri simili, ma in ragione di un’adesione in larga misura volontaria. Se siamo sempre meno liberi, di conseguenza, è perché noi stessi ogni giorno contribuiamo a costruire e difendere le prigioni invisibili in cui siamo rinchiusi.
Una di queste gabbie, senza dubbio, è la legge. In effetti, la nostra esistenza è sempre più regolata da enunciati scritti che trovano la loro origine nella decisioni – in larga misura arbitrarie – di uomini esattamente come noi, che però si considerano legittimati a “fare il diritto”. Questo trionfo della legge è tale che, in generale, ci riesce perfino difficile immaginare una qualche convivenza in assenza di una caterva di articoli e commi, come se vi fosse identità tra legge e diritto.
Chi conosce la storia, ovviamente, sa che non è così. Nella sua lunga evoluzione il diritto ha trovato moltissime e differenti “fonti”. Esso è stato consuetudinario, quando le regole della convivenza emergevano lentamente a seguito dei nostri comportamenti, sulla base delle regolarità tacitamente accettate. Si è pure pensato che esso fosse “naturale”, e che la proibizione di uccidere o derubare poggiasse quindi su principi morali che non possono essere contestati. Oltre a ciò, il diritto è stato “dottrina” e questo specialmente a Roma, dove per la prima volta le riflessioni in tale ambito sono assurte al livello di una scienza. Infine il diritto è stato giurisprudenza, risultando (specie nei paesi anglosassoni, detti di common law) dall’insieme delle decisioni assunte dalle corti di giustizia.
Per questo motivo, l’idea che senza leggi non si abbia diritto appartiene allora più alla mitologia che alla realtà. Ma questa tesi è del tutto funzionale agli interessi del ceto politico e dei suoi complici, che soltanto grazie a tale pretesa identificazione (“il diritto è la legge”) sono riusciti a controllare l’insieme delle regole e in tal modo a manipolarle a loro favore.
Se non ci si libererà da questa credenza superstiziosa e non si attuerà una relativizzazione della legge scritta, difficilmente sarà possibile riacquistare le libertà perdute. La riduzione del diritto alla volontà del sovrano di turno, per giunta, genera un orizzonte di generale incertezza, dato che nessuno può immaginare in quale orizzonte ci si troverà a operare tra uno, cinque o dieci anni. L’inaridirsi in larga parte dell’Occidente degli “spiriti animali” del capitalismo è da collegare a questo legicentrismo e al venir meno, di conseguenza, di ogni rule of law.
Come rilevava già John Locke, quella in cui ci troviamo è la peggiore delle anarchie. Nel Secondo trattato sul governo civile egli sottolinea che “se un uomo politico potesse fare ciò che più gli piace e non vi fosse alcuno cui appellarsi sulla terra per il risarcimento o la garanzia contro il danno che egli potrà arrecare, mi chiedo se quell’uomo non si trovi ancora in un perfetto stato di natura e possa considerarsi parte o membro della società civile”. Il filosofo inglese sembra pensare più a un governante che a un legislatore, ma a ben guardare è assai peggio quando il ceto politico controlla la produzione delle regole rispetto a quando dispone senza vincoli delle leve dall’esecutivo.
Per questo motivo, fino a quando non ci affrancheremo dall’assurda identificazione tra diritto e legge, tra l’ordine giuridico e l’arbitraria volontà di alcuni uomini, difficilmente potremo trovarci entro un quadro sociale più aperto e plurale.
(Articolo pubblicato originariamente su Il Mattino della Domenica, 17 novembre 2024)
Carlo Lottieri è il presidente della sezione italofona dell’Istituto Liberale