Una delle costanti dell’economia politica risiede nel successo e nella competitività che caratterizza i piccoli Stati dotati di un elevato grado d’autonomia decisionale: in tal senso, i cantoni svizzeri o le varie città-Stato sparse per il mondo offrono un esempio ineccepibile. Generalmente la limitata dimensione del territorio porta a sviluppare relazioni più aperte e commerciali, invece che politiche, verso l’esterno e tende a dissuadere da un ricorso alla forza o all’espansionismo a scapito del diritto. Strutture di piccole dimensioni fanno sì che il clientelismo, le ingiustizie o i privilegi siano più difficili da nascondere nell’anonimato. La diversità e la concorrenza fra i sistemi, infine, permettono il paragone e l’emulazione delle migliori pratiche di governo. Certamente questi vantaggi derivanti dalla piccolezza di una giurisdizione non prevalgono in modo automatico: la cultura e il clima d’opinione esercitano sempre una grande influenza sulle istituzioni. Tuttavia, in maniera generale, la formula «small is beautiful» è una guida affidabile sia quando si tratta dell’estensione geografica del monopolio territoriale di uno Stato, sia quando ci si riferisce al suo campo d’attività. D’altronde numerosi pensatori liberali, classici e contemporanei, hanno riconosciuto tanto il pericolo della centralizzazione del potere politico nei grandi Stati, quanto l’effetto benefico della dispersione di questo potere in una moltitudine di piccole giurisdizioni. Lo sviluppo storico dell’Europa — il Rinascimento, l’Illuminismo e la Rivoluzione industriale — sembra essere stato proprio favorito in modo decisivo da questo fattore.
Benjamin Constant (1767-1830) aveva già identificato i principali vantaggi derivanti dai piccoli Stati per la libertà individuale, ma pure per la morale e la giustizia, e particolarmente per quel patriottismo locale che in essi si afferma. Il patriottismo, osserva Constant, può esistere soltanto grazie all’attaccamento agli interessi e ai costumi locali. Perciò questo studioso nato a Losanna difende in primo luogo l’istituzione comunale: «i magistrati dei comuni più piccoli si compiacciono ad abbellirli; gli abitanti trovano gioia in tutto ciò che dà loro l’apparenza, seppur ingannevole, d’essere parte di qualcosa e riuniti da vincoli particolari. Sembra che, se essi non venissero fermati nello sviluppo di questa innocente inclinazione, in loro verrebbe presto a formarsi una specie di onore comunale, per così dire, di onore di città, di onore di provincia e questo sentimento sarebbe particolarmente favorevole alla morale». Tale patriottismo locale è certamente il fondamento del federalismo e di uno Stato costruito dal basso verso l’alto, sull’esempio svizzero.
Tuttavia Constant aggiunge una riserva fondamentale: tutto ciò che appartiene al dominio privato non deve essere sottomesso ad alcuna giurisdizione. Ciascun individuo ha infatti interessi che non riguardano altri che lui. Ciò che è solamente in rapporto all’individuo deve essere unicamente di competenza dell’individuo (e, per estensione, delle sue interazioni volontari nella famiglia e nella società civile, la quale comprende senza dubbio le relazioni di mercato): «non potremmo mai eccessivamente ripetere che la volontà generale non è più rispettabile di quella particolare, quando essa esce dalla sua sfera», sottolinea Constant. Dunque è solamente dopo aver definito ciò che è di competenza della sfera pubblica che ci si può interrogare sulla sussidiarietà tra le giurisdizioni: in questo modo gli interessi che riguardano gli abitanti di un comune potranno venire affidati alla competenza comunale; ciò che riguarda soltanto una strada o un quartiere non deve essere deciso che da coloro che ne fanno parte. I comuni avranno a loro volta interessi che riguardano solo la loro organizzazione interna e interessi che li riguardano nel loro insieme. Per Constant l’uniformità non è ammissibile che per questioni di legislazione generale rivolte a proteggere i diritti individuali nel quadro delle funzioni limitate che sono di competenza dello Stato: l’amministrazione della giustizia, la sicurezza interna e la difesa nei confronti dell’esterno. Dal punto di vista ideale, la legge dovrebbe limitarsi solamente a questo stretto necessario.
Da tale punto di vista è vero che i grandi Stati, Constant lo riconosce, possono disporre di un vantaggio: per la sicurezza esterna e per l’indipendenza nazionale essi possono più difficilmente diventare i giocattoli nelle mani dei Paesi vicini o le loro vittime. Nella diffusione delle idee e nel degrado dei pregiudizi, essi sono ugualmente meglio posizionati, nel senso che al loro interno la diversità dell’esperienza è molto più vasta. Ma questi due fattori vengono immediatamente relativizzati da almeno tre grandi inconvenienti. In primo luogo, uniformare (i governi o la Commissione europea dicono «armonizzare») gli usi e le leggi in luoghi molto diversi fra loro richiede sempre il sacrificio della libertà, con la probabile conseguenza di ridurre il Paese a un unico centro, la capitale politica, a scapito delle altre regioni, che tendono a diventare inerti. In particolare, l’uniformità non può instaurarsi senza fare violenza alla moltitudine di sentimenti, ricordi e usi locali dai quali è composta la felicità individuale, «l’unica vera felicità».
In secondo luogo, nei grandi Stati le leggi emanano da un luogo così distante da quelli dove esse devono venir applicate rendendo così inevitabili gravi e frequenti errori. Ciò obbliga il governo a dispiegare un’attività e una forza centralizzatrici, avvisa Constant, che sono difficili da contenere e possono degenerare nel dispotismo: «una circostanza locale o momentanea diviene in questo modo il motivo di una legge generale e gli abitanti delle province più lontane sono improvvisamente sorpresi da innovazioni inaspettate, rigori immeritati, regolamenti vessatori, che travolgono l’intera base dei loro calcoli e l’intera salvaguardia dei loro interessi, perché a duecento leghe di distanza alcuni uomini, a loro del tutto estranei, hanno creduto di presentire alcuni movimenti, indovinare qualche bisogno o scorgere qualche pericolo». In terzo luogo, i grandi Stati tendono a indebolire la democrazia: infatti, per conquistare l’ammirazione dei cittadini, è spesso necessario «sollevare la massa del popolo», ricorrere alla demagogia. Ciò non lascia più alcun posto ai discorsi ragionati e differenziati rivolti alla ricerca di soluzioni idonee.
È così che i grandi Stati, sacrificando tutto sull’altare di idee esagerate di uniformità «contrarie alla natura degli uomini e delle cose», contrarie dunque alla diversità degli individui e delle situazioni, sono diventati — nell’analisi di Constant — una vera e propria piaga per la specie umana. Alcune tendenze presenti oggi in Europa e negli Stati Uniti sembrano ancora una volta confermare la sua perspicacia.
Traduzione di David Anzalone.