Negli ultimi decenni quasi tutti i partiti politici hanno aderito al credo socialdemocratico secondo cui la politica deve garantire la “giustizia sociale”. Con questo s’intende la richiesta di concedere i cosiddetti “diritti positivi”, come il diritto al sostentamento, all’istruzione o alle cure mediche finanziate pubblicamente. Nessunpartito di spicco in Svizzera – e tanto meno in altri Paesi occidentali – mette in
discussione lo Stato sociale in linea di principio; le differenze stanno solamente
nell’entità delle garanzie statali richieste. Tuttavia, stabilire la “giustizia sociale” con misure politiche è fondamentalmente impossibile. Ciò che ne verrebbe fuori non può essere né sociale né giusto.
Il risultato non può essere giusto per tutti, perché la giustizia è qualcosa di
soggettivo. Ci sono diverse visioni su ciò che è giusto. In un ordine di libero mercato senza influenze coercitive da parte dello Stato, gli individui negoziano milioni di volte ogni giorno su ciò che è giusto per loro. Stipulano contratti soltanto se ciò che viene concordato è nell’interesse di tutte le parti coinvolte. Dal punto di vista di ciascuno, ciò che emerge è “giusto” in quanto lo è personalmente per tutti.
Tuttavia, qualora i politici volessero fornire al loro bacino di elettori i privilegi di un “servizio gratuito”, ciò significherebbe necessariamente che qualcun altro dovrà essere costretto a finanziarlo o a lavorare senza compenso. Ciò accade perché gli alloggi e i farmaci, ad esempio, non crescono sugli alberi, ma devono essere prodotti da qualcuno. Il lavoro forzato e l’estorsione sono vantaggiosi per chi ne approfitta, ma non per i danneggiati. Per questi ultimi è un risultato ingiusto. Una politica di “giustizia sociale” porta quindi inevitabilmente al dilagare dell’ingiustizia.
Una politica di “giustizia sociale”, inoltre, non è sociale, perché semplicemente ignora la volontà di chi viene derubato e/o costretto a lavorare. Non ha luogo alcun atto sociale di negoziazione interpersonale, come avverrebbe in un’economia di libero mercato. L’avanzamento della socialdemocrazia si accompagna di conseguenza con un’espansione dei comportamenti aggressivi e quindi antisociali.
Chiunque voglia davvero contribuire alla giustizia sociale non dovrebbe appoggiare alcuna politica che faccia di questo principio la sua bandiera, in quanto si tratta semplicemente di un clamoroso sofismo. Piuttosto, si dovrebbe lavorare per una depoliticizzazione di tutti gli ambiti della vita, in modo da far prevalere di nuovo ciò che le persone concordano pacificamente e volontariamente tra loro, ovvero ciò che considerano giusto. Verrebbero aiutati anche coloro che dipendono dal sostegno sociale: aiutare gli altri non richiede coercizione, ma è un’espressione di solidarietà genuina (perché volontaria).
Se si chiede senza mezzi termini alle persone se trovino eticamente corretto che alcuni abbiano il diritto di agire come persone di prima classe e di minacciare o infliggere violenza a persone di seconda classe se non si conformano ai dettami dei governanti, quasi tutti rispondono negativamente – senza riconoscere il parallelo con il sistema attuale. La costante propaganda che è fatta circolare da varie testate mediatiche e dalle scuole è riuscita a presentare l’ingiustizia come un diritto, mascherando una violenza con la pretesa di un “bene comune”. Viene inevitabilmente in mente il motto di 1984 di George Orwell: “La guerra è pace; la libertà è schiavitù; l’ignoranza è forza”.
Nonostante tutto, sembra che molti – disillusi, tra le altre cose, dall’irritante politica contro il Coronavirus – si siano resi conto del carattere ingannevole di tale sistema. C’è un grande bisogno di alternative e i tempi per un’opera di illuminazione ed educazione liberale non potrebbero essere più maturi. Perché il desiderio di un ordine sociale a misura d’uomo è più forte che mai.
Olivier Kessler è il direttore dell’Istituto Liberale.