È innegabile che nel corso degli ultimi decenni le attività umane siano diventate sempre più internazionalizzate e che quella che viene chiamata globalizzazione rappresenti uno dei tratti più caratteristici della nostra epoca. Tutto ciò è il risultato degli sforzi di liberalizzazione commerciale derivanti sia dall’approccio multilaterale del GATT e poi dell’Organizzazione mondiale del commercio, sia dagli accordi di liberalizzazione bilaterali (ai quali si fa sempre più riferimento), sia dalle politiche di integrazione regionale, in particolare in Europa. Lo stesso sviluppo tecnologico nel campo dei trasporti o della circolazione dell’informazione ha contribuito a questa internazionalizzazione.
Ma tali cambiamenti non sono sempre ben compresi e ben accetti. Sono in molti a ritenere nociva la globalizzazione, sia perché farebbe perdere posti di lavoro nei Paesi sviluppati a causa della presunta concorrenza dei Paesi a salari bassi, sia perché rischierebbe di portare a una «standardizzazione» degli stili di vita e perfino delle culture (ciò che alcuni non esitano a chiamare «americanizzazione»). Si sente spesso dire che, tenuto conto di questi ipotetici pericoli, non è normale che la globalizzazione delle attività economiche non sia inserita in una «globalizzazione» delle politiche economiche, cioè in un coordinamento o in un’armonizzazione di queste ultime. Come vedremo, questa idea poggia su un errore grossolano.
Leggere il rapporto:
Le due facce dell’integrazione europea
(13 pagine, PDF)