L’avvento della pandemia ha portato con sé una serie di conseguenze: non solo e in primo luogo di carattere sanitario. Quella a cui continuiamo ad assistere, in effetti, è una politica dell’emergenza che non soltanto implica un’espansione dei poteri pubblici, ma che al tempo stesso rischia di dissolvere l’orizzonte giuridico.
Come sottolineò in varie circostanze Carl Schmitt, importante teorico del diritto e anche intellettuale di punta della Germania hitleriana, lo “stato di eccezione” favorisce il declino delle regole (e quindi del diritto) e il trionfo della decisione arbitraria (e quindi della politica). Da studioso dell’istituto romanistico della “dittatura”, Schmitt ebbe a rilevare come sono proprio le fasi storiche in cui la società è investita da una minaccia esistenziale che vedono il trionfo del politico sul giuridico, della volontà sulla regola.
All’interno dell’Europa continentale, dove l’ordinamento è basato sulla legislazione, tutto questo appartiene purtroppo all’ordinario, dato che alla fine ogni questione rischia in effetti di essere vista in termini emergenziali: così che si finisce per rispondere a ogni problema con soluzioni imposte dall’alto. Eppure perfino entro queste società il diritto esige sempre tempi di maturazione e consolidamento, tali da garantire una qualche prevedibilità dei comportamenti. Non è un caso che Eugen Huber abbia introdotto, nell’articolo 1 del codice civile svizzero, quel fondamentale riferimento alla consuetudine quale fonte del diritto. Se le regole fossero solo la semplice volontà del governante di turno, come sarebbe possibile avviare un’attività e predisporre piani di vita? Il rischio è che si costruisca un progetto che finisce presto per essere dissolto da una nuova regola emersa dal nulla.
Questo per dire che la nostra vita civile ha bisogno di uscire al più presto da tale universo ultra-politicizzato connesso al virus, basato su una cascata di atti governativi che spostano risorse, modificano il sistema degli incentivi, alterano i prezzi, mutano l’ordine giuridico. Se vogliamo tornare alla normalità, in primo luogo dobbiamo restaurare la stabilità delle regole, lasciandoci alle spalle questa “rivoluzione permanente” indotta dal diffondersi del Covid-19 e dalle risposte date per fargli fronte.
A tale proposito uno storico del diritto come Paolo Grossi insiste sempre sulla distinzione tra “osservanza” e “ubbidienza”. Le norme calate dall’alto sono un qualcosa di estraneo e artificioso: sono l’arbitrio del Principe di turno e ci fanno avvertire il diritto come alieno, quando non addirittura ostile e pericoloso. Un diritto a cui ubbidiamo, ma che non riconosciamo davvero come nostro. L’evasione normativa che segna tante società è in larga misura da addebitare esattamente a questo snaturamento del diritto.
In effetti, in un ordinamento giuridico in salute le regole sono in primo luogo il prodotto di un processo di evoluzione sociale che ha bisogno di tempo per consolidare quelle norme e renderle legittime. È questo il diritto che osserviamo, poiché ne riconosciamo la legittimità. Tanto per capirci, noi non ubbidiamo semplicemente alla regola che ci impone di non uccidere il prossimo e non derubarlo, ma osserviamo quei fondamentali criteri di comportamento perché sono emersi nel tempo e anche perché poggiano, senza dubbio, su qualche principio atemporale.
Un diritto ridotto a semplici decisioni sovrane è allora un diritto che atterrisce e spaventa, ma che non avvertiamo come legittimo, mentre l’ordinamento giuridico dovrebbe essere inseparabile dallo sviluppo di una cultura relazionale che si sviluppa nel tempo: come avvenne a Roma con lo jus civile elaborato dai giureconsulti o nei paesi anglosassoni con il common law prodotto dalle corti.
Per tornare alla normalità dobbiamo riscoprire, allora, la vera natura delle norme e quindi uscire da quella cultura dell’emergenza che in ogni momento rischia di sconfinare in decisioni se non autoritarie, almeno arbitrarie.
Abbiamo dunque bisogno di poche e solide regole, poste a tutela dei nostri rapporti sociali, e non più di questa cascata di provvedimenti: spesso poco meditati, dettati dalla demagogia, orientati a soddisfare un’opinione pubblica allo sbando. La stabilità normativa è molto più cruciale di quanto non si creda: essa è la condizione necessaria allo sviluppo di attività responsabili e investimenti (in tempo, risorse, creatività). Da qui viene la necessità di opporsi a quanti, anche sulla base di interessi ben precisi, vorrebbero continuare a mantenerci in una condizione emergenziale che sta rischiando di dissolvere, giorno dopo giorno, il senso stesso delle nostre istituzioni.
Carlo Lottieri è il presidente della sezione italofona dell’Istituto Liberale.