La crisi causata dall’epidemia in corso ha riproposto vecchie discussioni sulla cosiddetta “espertocrazia” e quindi sul crescente potere assunto da taluni studiosi. Se in precedenza gli specialisti al centro della scena erano spesso i giuristi o gli economisti, quella che oggi si profila in tempi di Covid-19 è una società in cui sarebbero i virologi e, più in generale, i medici a decidere su questioni cruciali che riguardano l’esistenza di tutti noi.
Certo non è facile aderire in toto a quanto ha scritto Giorgio Agamben in un suo recente libretto nel quale — non senza sottrarsi dall’evocare temi marxiani — egli afferma che esisterebbero “poteri dominanti” che hanno deciso di dissolvere la democrazia (con la sua protezione di taluni diritti) per sostituirla “con nuovi dispositivi di cui possiamo appena intravedere il disegno, probabilmente non ancora del tutto chiaro nemmeno per coloro che stanno tracciando le linee” (G. Agamben, A che punto siamo? L’epidemia come politica, Macerata, Quodlibet, 2020, p. 12). In realtà non vi sono “grandi vecchi” o mefistofelici banchieri alla base della trasformazione degli attuali assetti politici, ma Agamben ha ragione nel denunciare che oggi le libertà di tutti sono in pericolo.
Secondo Agamben, gli uomini che controllano i dispositivi della sovranità “hanno deciso di cogliere il pretesto di una pandemia — a questo punto non importa se vera o simulata — per trasformare da cima a fondo i paradigmi del loro governo degli uomini e delle cose” (ibidem, p. 11). Hanno elevato a religione la scienza e hanno fatto degli esperti i nuovi sacerdoti, tanto più che da loro sono quasi sempre venuti inviti a stringere sempre di più le maglie del controllo.
Già quattro secoli fa Thomas Hobbes rilevava come la sovranità si affermi grazie alla paura e sfruttandola a proprio favore; quella lezione torna ora di attualità, ma a trarre beneficio dalla nostra fragilità non è un re figlio di un altro re, ma un apparato politico-burocratico che si appoggia a esperti e accademici per dilatare la propria capacità di controllo. Il risultato? In molti Paesi e anche in Europa abbiamo accettato di essere confinati in casa, non accompagnare i nostri morti nel loro ultimo percorso su questa terra, di rinunciare al lavoro e alla vita sociale, chiudere le chiese, negare istruzione e rapporti sociali ai nostri figli.
Ovviamente ogni società, in varie circostanze, fa ricorso alle conoscenze di chi è ferrato in un preciso ambito. Fin dalle epoche più remote lo sviluppo del mercato ha accompagnato la specializzazione e la divisione del lavoro. È bene che alcuni studino a tempo pieno i microbi e lavorino incessantemente nei reparti a terapia intensiva: è uno dei tratti di una società evoluta. Al tempo stesso, però, sarebbe un errore accettare l’idea di una delega in bianco.
Ogni scienziato, infatti, è portato ad avere una sua personale soluzione tecnica per questo o quel problema. Egli è guidato dall’aspirazione a risolvere una questione particolare e tende a imporre la sua visione senza porsi troppi interrogativi in merito ai diritti di libertà. Di conseguenza, è pronto a sacrificare (quasi) tutto a quello che ai suoi occhi appare fondamentale.
La riflessione sviluppata da Bernard-Henri Lévy (cfr. B.H. Lévy, Il virus che rende folli, Milano, La nave di Teseo, 2020) usa toni differenti da quelli usati da Agamben, ma in fondo non manca spesso di convergere con quanto affermato dallo studioso italiano. Innanzi tutto, anche l’intellettuale francese evidenzia che ben più del virus in sé deve colpirci la reazione di fronte ad esso. Agli occhi di Lévy, l’intero mondo è parso annichilito dinanzi a questa Prima Paura mondiale, che è stata ben sfruttata da chi non soltanto ha aveva tutto l’interesse a mettere a tacere i contestatori di Hong-Kong, ma soprattutto ha potuto trasformare le nostre città in non-luoghi, spazi perduti, lande senza vita. Se ci siamo avvicinati al modello cinese da molti punti di vista, la ragione sta nel fatto che già prima avevamo perduto il senso autentico dei nostri diritti e delle nostre libertà.
Più del virus, allora, ci ha avvelenato l’interpretazione che ne hanno dato tutti coloro che hanno iniziato a usare questa situazione per costruire una nuova logica di dominio. E non a caso BHL cita il Michel Foucault di Nascita della clinica, ma anche l’Étienne de la Boétie del Discorso sulla servitù volontaria. E se nel Cinquecento ci si sorprendeva dinanzi al sorgere di una sovranità monarchica che ambiva a farsi assoluta, oggi quel vecchio potere veste panni nuovi, perché sono i camici degli ospedali a giustificare — grazie alle commissioni tecniche e scientifiche — ogni esproprio ingiustificato della nostra autonomia d’azione. È bene allora essere molto critici di fronte al dilatarsi del potere degli scienziati o di politici che usano il loro prestigio sociale.
Per giunta, un’espertocrazia dominata dagli esperti metterebbe in crisi non solo le libertà individuali, ma anche le logiche democratiche di una società pluralista. Quando il ruolo dei competenti travalica la legittima funzione che essi hanno quando intervengono nel dibattito pubblico con le loro conoscenze, non c’è più spazio per un vero confronto. Se dalla scienza di alcuni si passa senza alcuna mediazione a decisioni che riguardano tutti, la democrazia per come l’abbiamo conosciuta è già morta e con la sua scomparsa esce di scena anche ogni discussione capace di contrapporre idee diverse.
In una realtà come quella elvetica, per giunta, è cruciale rilevare che se l’esperto pensa che esista davvero un’unica soluzione e che essa sia la migliore, è normale che tanti esponenti del mondo scientifico siano portati a esprimere insofferenza di fronte a un ordine federale caratterizzato da un’ammirevole attenzione per le distinte realtà locali, per la diversità di opinione delle varie popolazioni, per l’opportunità di sfruttare meccanismi concorrenziali che permettano di confrontare le strategie impiegate.
Per una specie di ironia della sorte, inoltre, il trionfo dei cosiddetti “competenti” potrebbe condurre a soluzioni particolarmente deficitarie proprio sul piano della conoscenza. Le informazioni di uno studioso sono naturalmente settoriali, ma dalle sue convinzioni egli tende a ricavare scelte politiche: pensa, ad esempio, che introdurre in Francia altre tre settimane di lockdown prima di Natale possa fare il bene di quella popolazione. Il guaio è che — con queste proposte ben poco meditate — l’esperto in virologia manifesta tutta la sua incompetenza in materia di diritto, economia, filosofia politica e altro ancora.
La realtà è articolata e ogni scelta collettiva presenta molteplici implicazioni, ma il punto di vista dello specialista spesso trascura tutto ciò. È proprio per questa ragione le sue decisioni rischiano di essere disastrose. Né bisogna scordare la lezione di quegli orientamenti della sociologia che evidenziano come ogni gruppo sociale svolga sì anche una “funzione” utile agli altri (abbiamo bisogno di specialisti), ma al tempo stesso esso abbia pure interessi propri e per questa ragione entri in conflitto con altre realtà (per accostare la sociologia conflittualista, cfr. L.A. Coser, Le funzioni del conflitto sociale, Milano, Feltrinelli, 1967 [1956]). In varie circostanze una specifica categoria cerca di rafforzare la propria posizione. Se questo vale per gli imprenditori nazionali che si oppongono alle importazioni o per i professionisti che chiedono tutele corporative, perché non dovrebbe valere anche per questo o quel gruppo di scienziati?
Meglio evitare, allora, di consegnarsi mani e piedi a un gruppo sociale: anche quando si tratta degli scienziati. Nel corso della storia la libertà è stata spesso minacciata dalle logiche tecnocratiche e dalla presunzione di pochi. Per questa ragione non bisogna smettere di essere vigili.
(Una prima versione di questo articolo è stata pubblicata dal Corriere del Ticino il 13 ottobre 2020.)
Carlo Lottieri è il presidente della sezione italofona dell’Istituto Liberale.