L‘epidemia del coronavirus ha riacceso le preoccupazioni per le ripercussioni sul commercio mondiale e sull’apertura delle frontiere. Nazionalisti, protezionisti ed estremisti di ogni schieramento hanno già fatto sentire le loro opinioni su ciò che dovremmo imparare da questa situazione. Chiaramente, questi movimenti hanno qui trovato un pretesto per criticare la globalizzazione. Hanno semplicemente proposto le stesse ricette di sempre adattandole alle circostanze.
Nonostante tutto, in questo caso i loro argomenti hanno una certa plausibilità. Le maggiori potenzialità di scambio a livello mondiale aumentano i contatti con i beni e le persone di tutte le parti del globo. Questo meccanismo, di per sé, aumenta il rischio di esporsi a parassiti e agenti patogeni nocivi. All’interno degli apparati statali la situazione attuale ha fornito ai critici della globalizzazione una motivazione apparentemente ragionevole per promuovere le loro politiche di punta.
Ma ci sono diverse ragioni per cui si sbagliano!
Costi in diminuzione
Innanzitutto, considerando l’evoluzione storica dei costi delle pandemie, cominciamo dalla più importante epidemia influenzale del ventesimo secolo: l’influenza spagnola del 1918. L’effetto di quella pandemia sul PIL fu del 6% (ceteris paribus). Le successive pandemie, del 1951, del 1957 e del 1968, hanno provocato danni meno ingenti, sia a livello economico (tra l’1% e il 4%) sia a livello demografico (i tassi di mortalità sono diminuiti ogni volta). L’influenza stagionale oggi continua a infliggerci costi elevati, anche nelle sue forme più innocue, ma rappresenta lo 0,6% del prodotto mondiale.
Il dato suggerisce che i danni non hanno mai smesso di diminuire nel corso del ventesimo secolo, contrariamente alla direzione degli scambi internazionali: il commercio s’è intensificato e s’è esteso in seguito alle liberalizzazioni economiche e alle innovazioni tecnologiche nei settori dei trasporti e delle telecomunicazioni. Di conseguenza, sembra che la globalizzazione non ci abbia delusi, giacché i danni delle pandemie si sono attenuati nel tempo. Sebbene le ripercussioni negative abbiano superato le stime previste dagli esperti, si attestano a livelli inferiori rispetto ai tassi storici se confrontati con quanto la globalizzazione abbia migliorato la prosperità dell’umanità.
Gli effetti dell’aumento dei profitti
L’intuizione di partenza suppone che la globalizzazione aumenti i rischi per la sanità. Eppure, questo non è per nulla così evidente. La globalizzazione potrebbe ridurre nonostante tutto i rischi collegati alla mortalità in molti modi. Uno di questi è particolarmente esplicito: un maggiore sviluppo economico migliora lo stato della salute in generale.
In particolare nei Paesi poveri, i guadagni apportati dalla globalizzazione si sono tradotti in un miglioramento dell’approvvigionamento alimentare, che ha ridotto la vulnerabilità a un grande numero di malattie. L’arricchimento apportato dalla globalizzazione facilita anche gli investimenti in prodotti e servizi collegati alla sanità che non erano disponibili in precedenza. Di conseguenza, la qualità delle cure aumenta in modo tale da compensare almeno in parte rischi di contagio più elevati.
Un altro modo di ridurre i rischi si presenta con l’impatto dell’aumento dei profitti sull’inquinamento atmosferico. Durante l’influenza spagnola del 1918 l’inquinamento atmosferico aveva aumentato i rischi (e quindi il tasso) di mortalità, in particolare nelle città dotate di sistemi elettrici alimentati a carbone. Tale analisi può essere descritta guardando alla curva di Kuznets, che afferma come l’inquinamento dell’aria aumenti parallelamente al reddito pro capite, ma solamente fino a un certo punto. Oltre questa soglia, ogni aumento dei profitti conduce effettivamente a una diminuzione dell’inquinamento. Nella misura in cui la globalizzazione aumenta il reddito pro capite, contribuisce a raggiungere questo limite.
Il ruolo della mobilità
L’ultimo e probabilmente il più importante dei modi in cui la globalizzazione diminuisce i rischi collegati alle pandemie è il ruolo dei viaggi internazionali. Recenti studi mostrano, in effetti, che certi agenti patogeni a bassa virulenza contribuiscono all’immunizzazione contro ceppi ad alta virulenza. In questa maniera, anziché aumentare i rischi di contagio, un mondo più interconnesso (in termini di viaggi internazionali) potrà ridurre la probabilità di epidemie tanto gravi.
L’insieme di questi elementi suggerisce che la globalizzazione non costituisce un rischio per la salute — anzi, è vero il contrario. Le voci di coloro che vogliono limitare il commercio mondiale e le migrazioni possono (e dovrebbero) essere ignorate.
Bibliografia
Robert J. Barro et al., «The coronavirus and the Great Influenza epidemic: Lessons from the “Spanish Flu” for the coronavirus’ potential effects on mortality and economic activity» (American Enterprise Institute et Harvard University, marzo 2020)
Victoria Y. Fan, Dean T. Jamison, Lawrence H. Summers, «Pandemic risk: how large are the expected losses?» (Organizzazione Mondiale della Sanità, dicembre 2018)
Victoria Y. Fan, Dean T. Jamison, Lawrence H. Summers, «The Inclusive Cost of Pandemic Influenza Risk» (The National Bureau of Economic Research, marzo 2016)
Samuel H. Preston, «The changing relation between mortality and level of economic development» (International Journal of Epidemiology, giugno 2007)
Robin N. Thompson et al., «Increased frequency of travel in the presence of cross-immunity may act to decrease the chance of a global pandemic» (The Royal Society, maggio 2019)
L’autore è professore al King’s University College (Canada) e ricercatore senior presso l’American Institute for Economic Research (Stati Uniti), che ha pubblicato questo studio nella sua versione inglese.