L’economista e storico americano Robert Higgs ha notato che, nel corso del ventesimo secolo, le guerre e i surrogati delle guerre, per esempio le campagne contro la droga e contro le epidemie, hanno condotto a estensioni permanenti del potere statale. Ora, il potere è la capacità di costringere fisicamente le persone. La guerra ne è la versione più radicale. Deve esserci una ragione del perché i cittadini dei Paesi occidentali oggi sono costretti a investire circa il 40% del PIL nelle guerre e in altre attività statali, mentre fino a un secolo fa la cifra si fermava al 10%. Inoltre, la recente espansione delle regolamentazioni statali, soprattutto a carico delle imprese private, comporta comunque un ulteriore costo per i cittadini, benché pagato indirettamente. Nel 1950, in America il 5% delle professioni richiedeva una licenza ufficiale. Oggi questa percentuale è salita al 30% e comprende persino i parrucchieri e gli architetti d’interni. Come diceva negli anni Venti il comico Will Rogers, prima che tutto ciò diventasse realtà: «Chi si lamenta di quanto gli costa lo Stato dovrebbe essere felice che non riceviamo tutto lo Stato che stiamo pagando».
Eppure le guerre — e la conseguente crescita dello Stato — esistono da molto tempo. Ci sono sempre state. Ciononostante, in passato, una guerra non portava automaticamente all’estensione della presenza dello Stato e agli attentati alla libertà personale che conosciamo oggi. Dopo la fine delle guerre napoleoniche nel 1815, il Regno Unito ha addirittura ridotto il potere statale, permettendo un periodo di prosperità al liberalismo. Nel 1945, dopo eventi simili, il potere dello Stato è invece aumentato. Negli Stati Uniti, durante la «guerra che doveva mettere fine a tutte le guerre», il presidente Wilson ha assunto con entusiasmo le prerogative di una tirannia, utilizzando la propaganda di Stato per galvanizzare sentimenti anti-tedeschi, nonché per falsificare le informazioni che arrivavano sull’influenza «spagnola» che si era diffusa, al contrario di ciò che suggerisce il nome, tra i maiali del Kansas. Gli stessi Stati Uniti che dopo il 1918 avevano abbracciato una linea liberale, non l’hanno fatto anche dopo il 1945. La guerra calda s’è trasformata in guerra fredda, il «ministero della guerra» è stato rinominato «ministero della difesa», e la presenza dello Stato nell’economia americana si è rafforzata. La Food and Drug Administration, una delle numerose agenzie responsabili della deleteria situazione in cui oggi gli Stati Uniti si trovano, a partire dal 1962 s’è vista accordare diritti su ben un quinto dell’economia americana: cibo, medicinali, nonché i test per la detenzione del coronavirus.
Il ruolo delle idee
In altre parole, i fatti sembrano voler dire che dietro alla recente crescita dello Stato c’è qualcosa di più profondo, e di più recente, delle semplici guerre. La causa profonda sono le idee, come già ha sottolineato Higgs, e in particolare quelle numerose tesi antiliberali diffusesi in Europa nel XIX secolo e messe in opera nel XX secolo: il nazionalismo, la tirannia della maggioranza e il socialismo. Come ha detto Keynes nel 1936: «Le idee degli economisti e dei filosofi politici, che siano giuste o false, sono più potenti di quanto si ammetta di solito. A dire il vero, non c’è cosa più importante che governa il mondo».
È da circa un secolo che le situazioni d’emergenza, come l’attuale lotta contro il Covid-19, giustificano maggiori costrizioni da parte dello Stato. Viktor Orbán sta utilizzando il coronavirus proprio come ha sfruttato qualche anno fa l’immigrazione siriana e l’antisemitismo per seguire le proprie ambizioni politiche. La ragione di fondo non è la guerra, ma le idee. Nel caso di Orbán si tratta di un miscuglio di nazionalismo e socialismo, che solitamente si chiama nazional-socialismo.
La seconda idea, la tirannia della maggioranza, è stata estesa progressivamente alla totalità delle persone. Il diritto di voto assicura dignità umana, come hanno ostinatamente affermato autori liberali degli ultimi due secoli, tra cui Mill, Tocqueville, Sylvia Pankhurst, Martin Luther King. Nonostante ciò, il voto maggioritario non porta sempre necessariamente a politiche giudiziose. A pensarci bene, l’élite non è più lungimirante degli elettori, se pensiamo a numerose gaffes di rinomati esperti. E se il problema fosse stata la «politicizzazione»?
È puntualmente nelle decisioni prese dalla maggioranza che resta pertinente la definizione di già un secolo fa data dallo scrittore di testi satirici H.L. Mencken: «Il principio di maggioranza è la teoria secondo cui le persone comuni sanno quello che vogliono… e si meritano di viverne pienamente le conseguenze con tutti i loro dolori». La peggiore versione della regola della maggioranza in Grecia veniva chiamata oclocrazia oppure, secondo un’espressione successiva che si trova in latino e in greco, mobocrazia. Questa forma di organizzazione ha dimostrato le sue debolezze durante la disastrosa spedizione siracusana da parte degli Ateniesi nella guerra del Peloponneso. In molti casi, si sarebbe potuta chiamare idiocrazia.
La terza idea: il socialismo. Proprio come il nazionalismo e la tirannia della maggioranza, il socialismo suona molto promettente a tante orecchie. Nella sua forma più dolce, non-marxista, il socialismo è una famiglia, in cui lo Stato prende il ruolo dei genitori e dona ai propri figli sicurezza in cambio di assoluta obbedienza. In un celebre discorso pronunciato davanti al parlamento svedese nel 1928, padre Albin Hansson aveva parlato di folkhemmet, «la casa del popolo». La mamma vuole che fai come dice lei, tesoro.
Il socialismo mi ha sedotta al liceo, quando mi dichiaravo di sinistra. Io e Jeremy Corbyn abbiamo la stessa età e nel 1960 avevamo le stesse opinioni sul capitalismo. Da allora io ho imparato alcune cose. Per esempio, che il socialismo è l’utilizzo del monopolio legale della forza per costringere le persone a fare le scelte economiche che non avrebbero fatto se fossero state libere. Il socialismo potrebbe essere chiamato anche «coercizione economica».
Coercizione momentanea o permanente?
Ovviamente, ci sono casi in cui è una buona idea che lo Stato ci obblighi a fare qualcosa. Per esempio, costringere i genitori a vaccinare i loro figli contro la varicella. Un caso di varicella ne infetta altri 20 e si tratta di una malattia che puntualmente si rivela mortale per gli adulti che non l’hanno avuta durante l’infanzia: chiedete agli Aztechi, agli Inca e ai Moicani che ne pensano. Il numero di persone contagiate da ogni nuovo caso di coronavirus è di due o tre, che comunque è già sufficientemente pericoloso. Inoltre, senza il test, spesso il virus non è diagnosticabile. Per quanto riguarda l’influenza, il numero scende a uno o due. Per questo motivo, non è razionale costringere gli individui a restare a casa per prevenire la normale influenza stagionale, per cui abbiamo già sviluppato delle difese. Le persone a rischio hanno tutto l’interesse a proteggersi con il vaccino, il che riduce comunque il contagio anche per chi non lo fa. Certe volte la prevenzione contro l’influenza comunque non funziona per migliaia di persone e non ci possono far niente né la scelta personale né tantomeno la coercizione statale.
In altre parole, la coercizione non è sempre necessariamente un male, come quando impedite a vostro figlio di due anni di lanciarsi davanti a un bus strattonandolo per il braccio. Saltuariamente, durante una guerra per la sopravvivenza, anche un regime liberale deve ammettere restrizioni. Ma, durante la crisi del coronavirus, quasi tutti gli Stati del mondo, con l’eccezione della Corea del Sud e di Singapore, hanno sprecato l’occasione di dare una risposta sensata a una malattia altamente infettiva al primo ostacolo che hanno trovato: bisognava agire rapidamente, e poi fare test, test, test. Molti, al contrario, hanno intrapreso l’unica alternativa che era quella in voga nel Medioevo: la quarantena, dando la colpa di tutto agli stranieri.
La ricchezza attuale farà sì che questo approccio della quarantena di massa alla fine non sarà un disastro totale. Ci rimetteremo e dovremo evitare di sacrificare le nostre libertà per farlo. Per avere idea di cosa significherebbe una coercizione permanente, pensate a quello che ha detto O’Brien sul “1984” di George Orwell: «Se volete un’immagine del futuro, immaginatevi uno stivale che calpesta un volto umano — per sempre».
Rifiutiamo di andare in questa direzione. Difendiamo un liberalismo che sostenga l’innovazione e ammetta che le persone adulte sono responsabili e degne di fiducia. Non ricadiamo nelle braccia di uno Stato paternalista e ignorante dalle tendenze autoritarie. Non facciamo l’errore di credere che una coercizione adatta ad un momento di emergenza giustifichi una coercizione permanente.
Deirdre Nansen McCloskey è professoressa emerita di economia, storia, inglese e comunicazione all’Università dell’Illinois di Chicago. È l’autrice della trilogia “Uguaglianza borghese: come le idee, non il capitale o le istituzioni, hanno arricchito il mondo” (2016), “Dignità borghese: perché l’economia non può spiegare il mondo moderno” (2010) e “Le virtù borghesi: l’etica nell’età del commercio” (2006).