Un po’ ovunque si stanno frettolosamente predisponendo pacchetti di aiuti per sanare la difficile situazione dell’economia, aumentando in tal modo la spesa pubblica. Questa impostazione vorrebbe stimolare l’economia. Tuttavia la storia ha mostrato che una moderata presenza dello Stato nell’economia è il principale fattore di successo e che un rigoroso programma di destatalizzazione accelererebbe la ripresa.
La Svezia, ad esempio, ha avuto esperienze positive di snellimento dello Stato, dopo aver imboccato in precedenza la strada sbagliata, dilatando il controllo politico della vita economica. Tra il 1970 e il 1990 il welfare svedese è aumentato significativamente, facendo sì che la crescita economica del Paese si stabilizzasse ben al di sotto della maggior parte degli Stati europei.
Il declino della Svezia
Nel 1970 la Svezia si trovava ancora al quarto posto nella classifica OCSE dei Paesi con il più alto prodotto interno lordo (PIL) pro capite, per poi scendere al sedicesimo nel 1995. Molti imprenditori — tra cui il fondatore dell’Ikea Ingvar Kamprad — hanno lasciato il Paese, frustrati dalla politica di espansione dello Stato e da una sconfinata avidità fiscale.
A partire dagli anni Novanta, la Svezia ha spinto su riforme verso l’economia di mercato: le imposte sulle imprese sono state quasi dimezzate, dal 57% al 30%. Anche l’aliquota massima dell’imposta sul reddito è stata ridotta di circa 25 punti percentuali. Nel 2004, poi, si è avuta la completa abolizione delle imposte sulle successioni e sulle donazioni e, nel 2007, è stata abolita la patrimoniale. Infine nel 2013 l’imposta sul reddito delle imprese è stata ridotta al 22%. Tra il 1993 e il 2000 le prestazioni sociali sono state portate dal 22,2% al 16,9% del PIL, le spese per il personale amministrativo dal 18,2% al 15,6% e le sovvenzioni statali dall’8,7% all’1,8%. Di conseguenza, in Svezia il rapporto tra spesa pubblica e PIL è sceso dal 61,3% al 52% tra il 1990 e il 2012.
All’indomani di tutto ciò nel 2016 la Svezia è tornata al dodicesimo posto nella classifica OCSE sopra ricordata. Questo risultato è particolarmente impressionante perché molti nuovi Paesi hanno fatto il loro ingresso in graduatoria.
Ulteriori prove sono fornite dal Regno Unito, che dopo la seconda guerra mondiale ha ampliato enormemente il peso dello Stato — ad esempio, con un programma di nazionalizzazione su larga scala che ha interessato, tra l’altro, le industrie del carbone, del ferro e dell’acciaio, dell’aviazione civile, delle telecomunicazioni, delle ferrovie, delle banche, dell’elettricità e del gas. Tra il 1950 e il 1970 la crescita economica del Paese è stata notevolmente inferiore a quella degli altri Paesi europei. Nel 1972 il governo intervenne senza mezzi termini anche sulla formazione dei salari e dei prezzi, minando ulteriormente l’economia di mercato.
Margaret Thatcher vinse le elezioni del 1979 e dichiarò immediatamente l’abolizione del controllo dei prezzi. Ridusse l’aliquota fiscale iniziale dal 33% al 25% e quella massima dall’83% al 40%. Combatté contro il dilagante eccesso di regolamentazione, liberò il Paese da una burocrazia inutile e avviò una grande campagna di privatizzazioni — vendendo, tra le altre imprese, pure la British Telecom, la British Airways, la BP, la Rolls-Royce e la Jaguar. Oltre 600.000 posti di lavoro furono trasferiti al settore privato.
La produttività delle imprese interessate crebbe notevolmente. Nei settori più liberalizzati si ebbe una fiorituta dell’imprenditorialità: si passò da 1,9 milioni di piccole imprese nel 1979 a oltre 3 milioni nel 1989. Il salario netto dei lavoratori della produzione ordinaria aumentò del 25,8% tra il 1979 e il 1994, molto più che in Germania (2,5%) o in Francia (1,8%), ad esempio.
La libertà porta prosperità
La Svezia e il Regno Unito sono soltanto due tra i tanti esempi che indicano il successo dei processi di destatalizzazione. Come dimostra l’Indice della libertà economica non si tratta di coincidenze: nel quartile dei Paesi con la più alta libertà economica, le persone sono circa sei volte più ricche e vivono quindici anni in più rispetto al quartile dei Paesi con la più bassa libertà economica.
L’economista Richard Rahn ha mostrato, con la sua «curva di Rahn», che il peso ideale dello Stato si colloca tra il 12% e il 13% del PIL. Nonostante ciò, lo Stato rimane troppo invasivo in tutte le economie mondiali e il suo peso continua ad aumentare stabilmente, indebolendo sempre più il potenziale di crescita dell’economia.
Soprattutto in vista dell’imminente recessione globale c’è un urgente bisogno di agire. Se i politici vogliono davvero contrastare l’impoverimento della società e non semplicemente abusare della crisi attuale per estendere il loro potere, devono sottoporre immediatamente lo Stato a una dieta severa.
La situazione attuale è spesso paragonata a quella della Grande Depressione del 1929. L’economista Murray Rothbard ha mostrato, nel suo esauriente studio America’s Great Depression, che una politica di laissez-faire è la giusta risposta a una crisi immediata. Prima del 1929 negli Stati Uniti la moderazione governativa durante le recessioni economiche era stata la norma, il che fino a quel momento era servito ad attenuare notevolmente la gravità e la durata dei periodi di crisi.
Nella Grande Depressione, però, la situazione cambiò radicalmente. Gli interventi dello Stato come l’espansione della spesa pubblica a sostegno delle imprese in difficoltà, le leggi a protezione dei salari, il divieto di speculazione sui generi alimentari, i programmi per la creazione di posti di lavoro — la costruzione della diga di Hoover ne è un esempio significativo —, l’aumento delle tasse, le politiche monetarie espansive e fenomeni simili hanno prolungato la crisi, poiché hanno ostacolato in modo massiccio i necessari processi di aggiustamento dell’economia di mercato.
Imparare dalla storia
Dopo tre anni e mezzo, il tasso di disoccupazione si era attestato al 25% e non c’era stato ancora alcun segno di miglioramento. Rothbard giunse quindi alla conclusione che la politica aveva inutilmente infierito sulla crisi e che la Grande Depressione fosse diventata così “grande” soprattutto a causa dello statalismo.
Albert Einstein disse: “La pazzia può essere definita come il fare la stessa cosa più e più volte e aspettarsi risultati diversi”. C’è da sperare che nel corso della crisi attuale ci venga risparmiata quella follia e che i responsabili della politica prendano seriamente in considerazione ciò che la storia ha da dirci.
Olivier Kessler è il direttore dell’Istituto Liberale.