Siamo così abituati a vivere in uno Stato che redistribuisce la ricchezza, da considerare questo fatto una cosa normale, almeno per quanto riguarda il principio. Il mio scopo in questo saggio è dimostrare che, al contrario, quella che viene chiamata “redistribuzione” si fonda su una morale ben specifica, che non ha alcuna ragione d’esser imposta a tutti.
Prima di tutto è necessario interrogarsi sulla legittimità della parola “redistribuzione”. Questo termine infatti è molto strano, e particolarmente mal impiegato. Esso significa distribuire nuovamente o in altro modo, il che lascerebbe intendere l’esistenza precedente di una “distribuzione iniziale”.
Ora, strettamente parlando, questa non ha mai avuto luogo. I redditi sono acquisiti da ciascuno, in funzione del lavoro, dei contratti pattuiti ed eseguiti, dei rischi assunti, della volontà degli altri, e talvolta della fortuna. Sono il prodotto di azioni libere, e non della volontà di un’autorità. Non sono il risultato di una distribuzione; non provengono da una decisione superiore di assegnare a ciascuno dei membri di un gruppo una parte o un elemento di un tutto.
Quella che viene talvolta chiamata erratamente “distribuzione iniziale” non è dunque una distribuzione. E i redditi di ciascuno non fanno parte di un “tutto”, ma rappresentano la proprietà liberamente creata e acquisita da ciascuno mediante i propri diritti e le proprie libertà.
Leggere il rapporto:
La morale contestabile dello Stato redistributore
(7 pagine, PDF)