Il 3 luglio 2023 l’Istituto Liberale ha organizzato l’evento Elezioni in Argentina: prospettive di libertà?, in collaborazione con Students For Liberty Svizzera. Al centro della serata c’è stata l’analisi del passato e del presente della politica argentina, in vista delle vicine elezioni di ottobre 2023. La situazione è resa più che mai interessante dal successo imprevisto della campagna di Javier Milei, candidato auto-proclamatosi anarco-capitalista (nonché già coordinatore di Students For Liberty). Si è trattato, allora, di chiedersi quali siano le prospettive per il Paese sudamericano, la cui storia nel Novecento è passata dalla cattiva gestione politica peronista fino alla minaccia comunista e, infine, a quell’iperinflazione che sta mettendo a dura prova la tenuta stessa della società civile.
Il primo speaker è stato Alejandro Chafuen, presidente dell’Acton Institute, fondatore del Centro Latinoamericano di Ricerca Economica, nonché ex presidente dell’Atlas Network. Ha cominciato ripercorrendo la travagliata vicenda politica dell’Argentina. Dal periodo del peronismo alla minaccia del comunismo, fino all’influenza della Scuola di Chicago in difesa del libero mercato, secondo Chafuen la rovina della società ha avuto inizio quando ha cominciato ad entrare nella finestra di Overton l’ideologia della cosiddetta “terza via”. Di qui, i rappresentanti che si sono susseguiti non hanno saputo perseguire una linea determinata a dare stabilità alla società argentina, adottando posizioni di volta in volta peroniste e comuniste, oppure sposando un neoliberismo solo di facciata: facendo promesse elettorali e agitando slogan demagogici al solo scopo di assecondare questa o quella richiesta popolare. È in questo contesto che s’inserisce la recente candidatura presidenziale di Javier Milei, libertario e portatore di idee rivoluzionarie, tra cui l’abolizione della banca centrale argentina e la completa dollarizzazione del Paese. È Milei un politico, destinato a perpetuare la tradizione argentina delle effimere promesse elettorali, o è una possibile chance per un’Argentina vicina a quel baratro in cui sono già finte Cuba e il Venezuela? Quale che sia la risposta, è chiaro che il suo progetto radicale rappresenta qualcosa di assolutamente inedito nel panorama latinoamericano.
La situazione della cultura politica in Argentina è rimasta a dir poco difficile per un mix letale di fattori. Il peronismo s’è comprato il sostegno dei sindacati e di una larga fetta della classe imprenditoriale. Subito dopo la caduta di Peron, oltretutto, il governo ad interim nominò un famoso rappresentante del keynesianismo. In seguito, dopo il golpe militare del 1976,vi fu anche chi esibì alle telecamere una copia della “Via della schiavitù” di Hayek. Nonostante questa instabilità politica, il potere dello Stato argentino è riuscito sempre più ad affondare le proprie radici nella società civile delle persone. Il risultato è che oggi, per gran parte della popolazione, è impensabile che si possa uscire in maniera definitiva dalla dipendenza statale e che si possano responsabilizzare gli individui produttivi. Risulta quindi difficile valutare quanto davvero una voce fuori dal coro come quella di Milei possa sottrarsi al populismo e imprimere un cambiamento serio e duraturo alle istituzioni argentine. Certo non aiuta che il peronismo sia appunto rimasto l’ideologia dominante non solamente nel rapporto tra la gente e il governo, ma anche nelle pratiche e nei processi decisionali interni allo Stato stesso. Anche se Milei vincesse, cosa quanto mai improbabile a causa della sua debole struttura partitica, riuscirebbe veramente ad affrontare con successo l’opposizione della piazza e dei palazzi governativi?
Il secondo speaker della serata è stato Massimo Praga, amico di lunga data di Chafuen, nonché imprenditore di successo nel mondo alberghiero e profondo conoscitore della realtà politica e sociale argentina. Perché un Paese così ricco di risorse, così omogeneo culturalmente ed etnicamente, non riesce a superare le difficoltà in cui si trova fin dai tempi dell’indipendenza? I motivi della specificità argentina sembrano siano assai profondi. Da quando gli spagnoli sfruttarono la terra, facendo dell’Argentina una colonia di passaggio e un avamposto per concentrare le proprie forze sul continente, si creò una forte centralizzazione politica che definì nel profondo la cultura di quella società. Il potere si è configurò come il susseguirsi di leader che promettevano di guidare la società civile verso maggiore ricchezza e prestigio, senza per questo però veramente accettare le responsabilità collegate alla libertà individuale. Diventa così difficile, anche oggi, che gli argentini sappiano accettare una logica di responsabilità e libero mercato, e questo spiega la loro attitudine nei confronti del governo. Diventa così difficile che cambi un tratto fondamentale dell’Argentina: ciò che è pubblico non è di nessuno, non è visto come una ricchezza nelle mani di tutti da investire in maniera intelligente. Nessuno dei candidati alle prossime elezioni ha probabilmente la vera volontà di cambiare questo sostrato sociale e istituzionale.
Uno dei cavalli di battaglia di Milei è la dollarizzazione dell’Argentina. Questo ricorda in qualche modo i problemi che sono sopraggiunti quando l’Italia ha abbandonando la lira in favore dell’euro – deficit, spesa pubblica, spread – in cambio della risoluzione dell’inflazione rampante. Sostanzialmente, in entrambi i casi la proposta è questa: togliere al governo nazionale la capacità di stampare moneta in funzione dei propri investimenti pubblici fuori controllo. Tuttavia, la plausibilità di una scelta così radicale non solo è difficile dal punto di vista tecnico, ma rischia pure di legare le mani alla politica argentina. Una soluzione più appetibile per un libertario, quale s’è dichiarato Milei, sarebbe la liberalizzazione delle valute utilizzabili. Questo sarebbe più semplice in prospettiva legale e inoltre permetterebbe una conservazione del potere d’acquisto argentino più sicura e dinamica. In entrambi i casi, a ogni modo, Milei dovrebbe scontrarsi con la buona metà del parlamento argentino, che sarebbe senz’altro contrario a una rottura così netta con i privilegi di cui la classe politica gode.
Tanto Chafuen quanto Praga hanno concordato in merito al fatto che il ruolo di Javier Milei sia soprattutto quello di esprimere un clima di frustrazione e ribellione da parte degli argentini. Tuttavia la sua campagna deve scontrarsi con una cultura politica troppo assuefatta alla dipendenza dalla pubblica. Basti considerare che ben 26 milioni di argentini, ovvero circa la metà della popolazione totale, vivono in un modo o nell’altro a carico dello Stato. Per questo motivo, le probabilità di successo di Milei sono molto condizionate dalla radicalità delle sue posizioni, che per ora gli hanno concretamente assicurato solo circa il 10% dei voti sicuri (su circa il 30% che gli sono necessari per vincere senza quei compromessi che lo snaturerebbero). Certo è che la sua proposta manifesta – in positivo – una nuova tendenza da parte degli argentini a guardare oltre il peronismo che ha dominato la loro storia politica. Il suo stile in parte populista e i suoi contenuti (che, benché libertari per molti aspetti, sono stati assunti nella sua comunicazione politica solamente negli ultimi 2-3 anni) lasciano presagire che il suo ruolo possa essere l’indicazione di una via alternativa, più che un vero cambiamento di sistema.
In particolare, ciò che preoccupa di Milei è che possa emulare la tendenza intrinsecamente populista dei politici anti-establishment. La sua comunicazione si riassume nel parlare da economista con i politici e da politico con gli economisti; al di là delle sue argomentazioni e delle sue promesse, che si appellano al bisogno della società argentina di superare l’autoritarismo del suo passato, il rischio è che si offra come colui che vuole usare la forza pubblica per risolvere i problemi del popolo argentino. Idealmente un vero libertario impegnato in politica dovrebbe invece puntare all’eliminazione della sfera politica, lasciando che le persone perseguano i loro progetti in autonomia. D’altra parte, non c’è forse il rischio che per seguire la volontà del popolo e rafforzare il suo successo elettorale si entri presto in una fase trasformistica, anche in considerazione del fatto che il libertarismo è di nicchia ovunque? Qui è d’obbligo l’analogia col presidente Menem, che salito al potere implementò politiche liberali solo per i primi anni della sua carriera, ovvero finché la ricerca del consenso l’obbligò a inflazionare il peso a forza di spesa pubblica, annullando la sua precedente politica di rafforzamento della moneta.