In un mondo in cui ogni giorno si alzano nuovi muri e lo scontro politico si fa sempre più acceso, un nemico comune unisce destra e sinistra, populisti e democratici, reazionari e progressisti. Che siano le aziende a delocalizzare, l’«immigrazione selvaggia» o la precarietà del lavoro, il libero mercato, il capitalismo o, nella sua definizione più abusata, il «neoliberismo» è il capro espiatorio perfetto per tempi confusi, l’elefante nella stanza che tutti, quando ce n’è bisogno, additano. La soluzione sarebbe sempre la stessa: più leggi, più controlli, e quindi più Stato. Per sfatare la presunzione di chi pretende di saperne di più di milioni di persone che ogni giorno comprano e vendono beni e servizi, Alberto Mingardi, autore di La verità, vi prego, sul neoliberismo, ridimensiona il mito del mercato pervasivo e tirannico.
Come affrontare senza intervento statale in economia emergenze sociali reali o percepite tali? Per esempio, qual è la Sua ricetta nei confronti dell’immigrazione?
I fenomeni complessi non possono essere risolti con una “ricetta”. Molto spesso per “risolverli” è meglio agire di sponda, concentrarsi su questioni di fondo, pensare all’architettura istituzionale di un Paese. Sull’immigrazione, mi limito ad osservare solo alcune cose.
Primo, l’invasione della quale si fantastica non esiste: a livello globale, circa il 3% della popolazione vive in Paesi diversi da quello in cui è nato. Nei Paesi europei con immigrazione più elevata parliamo comunque di cifre inferiori al 10% della popolazione (la Svizzera fa eccezione): il che non significa che il fenomeno non sia cresciuto negli ultimi anni, ma segnala come troppo spesso si giochi con statistiche demagogiche. È comprensibile: le persone tendono a essere conservatrici, così come preferiscono stare nei luoghi dove sentono di avere le proprie radici così sono diffidenti verso chi ha la pelle di un colore diverso. L’immigrato è un’anomalia, non la regola, nelle società umane. Si sceglie di fare fagotto ed andarsene per ragioni davvero straordinarie, e comunque andarsene richiede sempre grande coraggio e una elevata propensione al rischio, perché si arriva in Paesi nei quali si sa che si avrà una rete di protezione limitata a un ristretto circolo di ex connazionali, non si conoscerà la legge, si dovrà imparare la lingua e quant’altro. Questa propensione al rischio, detto per inciso, fa sì che molto spesso gli immigrati siano il vero lievito dell’economia: è vero per chi arriva in Italia, è vero per tutti quegli italiani che vanno altrove, a cominciare proprio dalla Svizzera.
Secondo, più persone non sono solo più bocche da sfamare: sono anche, e soprattutto, più braccia e più teste. Possono dare un fortissimo contributo di creatività e di idee. Sempre se li si mette in condizione di farlo: se li confiniamo in luoghi d’accoglienza, campi e hotel, tenendoli il più lontano possibili dal mercato del lavoro; se li lasciamo in clandestinità, consegnandoli all’economia informale, beh, allora, è improbabile che questo accada.
Terzo, l’immigrazione, che potrebbe essere una gigantesca lente di ingrandimento utile a risolvere i nostri problemi, diventa invece una strepitosa arma di distrazione di massa, nel cui uso sono abilissimi politici come Matteo Salvini: straordinariamente capaci di prendere voti, ma del tutto privi di un progetto politico, dell’idea di che cosa fare per migliorare la condizione di uomini e donne in carne ed ossa nel mondo di oggi. Se pensiamo ai problemi legati all’immigrazione, vediamo che si tratta soprattutto di sicurezza e scuola. È colpa degli immigrati se la rule of law è, in alcune regioni d’Italia, una pia intenzione e poco altro? È per colpa delle classi miste se la scuola italiana si rivela assai poco efficace (con alcune eccezioni) nel trasferire competenze e premiare il merito? L’immigrazione è una lente d’ingrandimento: siccome i reati sono commessi da persone con la pelle di colore diverso, li “vediamo” di più. Siccome ci sono spesso classi miste, siamo portati a immaginare che da lì venga il problema. Invece i problemi sono più antichi. Un leader dovrebbe avere un’idea di come risolverli. Un demagogo si limita a cavalcare l’ostilità per gli immigrati.
UE sì o no? Come garantire l’ordine neoliberista senza le normative UE e la creazione di un’unica forza economica e diplomatica, in un mondo stretto tra i populismi da una parte e Cina e Russia dall’altra?
L’Unione Europea è stata senz’altro assai poco “liberista” in molte delle sue manifestazioni più recenti. Nello stesso tempo, ha assicurato libertà di scambi e una valuta relativamente stabile al più grande mercato al mondo. Non è poco. L’Italia, il Portogallo, la Spagna, la Grecia, direi persino la Francia, non sono la Svizzera: la qualità delle nostre istituzioni, e il rispetto nei confronti dell’economia di mercato, sono aumentati, non diminuiti, in conseguenza all’appartenenza al club europeo. Mi rendo conto che non sempre è facile capirlo per chi, vivendo in Svizzera, teme che entrare nell’Unione (cosa che, fossi svizzero, mi guarderei bene dal fare) implichi una compressione delle libertà economiche. Ma in un Paese come l’Italia, che per anni aveva una moneta banderuola come la lira, sempre piegata alle necessità della classe politica, possiamo dire che ci sono due generazioni, la mia e la successiva, che non hanno conosciuto inflazione.
Quanto a Cina e Russia, credo che da fare ci sia una cosa soltanto: non copiarle. Noi sappiamo che centralizzare le decisioni di produzione, e in particolare asservire l’allocazione del credito alla politica, produce nel medio periodo notevole inefficienza. In Cina la cosa non si vede perché il Paese continua a surfare sull’onda lunga di una spettacolare creazione di ricchezza, conseguente al poco di libero mercato che è stato introdotto nel sistema. In Russia la forza del potere centrale, e il fatto che possa accusare gli avversari politici occidentali di ogni nequizia grazie alle sanzioni, occulta le reazioni e smussa i segnali negativi. In generale, a me viene da ridere quando ci dicono che la Cina avrà prima l’automobile autonoma degli Stati Uniti, perché lì il governo ha affidato il compito a una sola azienda mentre negli Usa sono almeno sei i produttori che ci stanno provando. Se per arrivare primi nella gara competitiva bastasse poter concentrare risorse, l’Unione sovietica dominerebbe ancora su mezzo mondo.
Gli indipendentismi, di cui si parla ciclicamente, frammenteranno il potere politico verso mercati meno autosufficienti e quindi più aperti, oppure chiuderanno i confini dietro a narrative nazionaliste (o socialiste, come per esempio in Catalogna)?
La libertà individuale si definisce in opposizione allo Stato nazionale: quest’ultimo è il suo nemico più pericoloso, perché ambisce a essere la cabina regia di tutta la società, sradicando uno dopo l’altro tutti quei corpi intermedi, quelle aggregazioni più o meno spontanee di individui che si frapponevano fra il potere e il singolo. La disgregazione degli Stati nazionali può rappresentare una grande opportunità per la libertà degli individui; uno Stato che abbia una dimensione più piccola può “permettersi meno cose”, innanzitutto nel senso che la sua base imponibile è più ristretta. Presumibilmente, sarebbe dunque anche più mobile: in un mondo di Stati “piccoli” sarebbe meno costoso spostarsi dall’uno all’altro, per ragioni intuitive. È sicuramente meno costoso spostarsi fra la Svizzera e il Liechtenstein di quanto non lo sia spostarsi dall’Italia alla Francia! Ma sarebbe una grande opportunità per la libertà individuale anche nel senso che dimensioni e popolazione più modeste costringono in modo ancor più chiaro le istituzioni a dipendere dalla concorrenza internazionale, a fare affidamento sullo scambio con gli altri Paesi.
Lei ha però ragione quando sottolinea il pericolo di identità inventate, di nazionalismi che diventano straordinariamente oppressivi, anche se in taglia ridotta. Questo problema è amplificato dal plebiscitarismo di molti di questi movimenti: dall’idea, cioè, che prendere il 51% in una elezione basti a definire appartenenza e identità di un territorio, e chi ha perso non possa che adeguarsi. La logica del voto a maggioranza è particolarmente debole per cambiamenti di rango costituzionale: tant’è che, di solito, quando le assemblee debbono votare una revisione della Costituzione c’è bisogno di una super-maggioranza. Idealmente il problema potrebbe essere risolto riducendo la dimensione dei territori che votano: facendo votare, ad esempio, ciascuna provincia sul fatto che voglia appartenere alla Repubblica Italiana o a un’ipotetica Repubblica Veneta indipendente; oppure, proponendo referendum con un quorum elevato e una super-maggioranza sulla questione.
Non sembri una questione di lana caprina: anche questo è un modo per provare a sottrarre le questioni identitarie alla logica del vinco-io-perdi-tu, per inquadrarle in un meccanismo diverso da quella dello scontro politico quotidiano.
Il libro sottotitola Il poco che c’è, il tanto che manca. Che c’è di poco? Cosa benedice del sistema corrente? E che manca di tanto? Quali sono i prossimi passi per migliorare?
Noi non viviamo in un mondo liberista, ma traiamo grandi benefici dall’estensione della divisione del lavoro, dall’internazionalizzazione degli scambi, dal fatto che le persone possano comunicare, e vendere e comprare beni e servizi, fra diversi Paesi a una velocità molto superiore che in passato. La globalizzazione attuale non è “libero scambio”, nel senso che non ci si è limitati a divellere barriere o a eliminare dazi: sono state, in larga misura, iniziative di mutua armonizzazione a consentire questa maggiore compenetrazione dell’economia globale. Ciò fa sì che il sistema sia meno “liberista” della globalizzazione di fine Ottocento ma anche che probabilmente sia più difficile da “smontare”, più solido rispetto all’incalzare dei protezionismi.
Non è poca cosa.
Ciò che più ci manca, sotto il profilo del neoliberismo, sono meccanismi che riescano a ridurre i tassi di crescita delle burocrazie e della spesa pubblica. Lo Stato cresce e continua a crescere. I vecchi liberali credevano nell’importanza delle Costituzioni. Forse sono più efficaci i mercati nel suggerire politiche meno onerose perlomeno ai Paesi più indebitati. Certamente il cosiddetto quantitative easying ha inceppato il meccanismo, consentendo ai grandi debitori di continuare ad esserlo senza cambiare la propria rotta.
Se vuole una considerazione di carattere più generale, noi liberali abbiamo paura di leadership politiche forti e, giustamente, vogliamo limitare la discrezionalità dei governi. Per questo cerchiamo, non da oggi, l’equivalente di un algoritmo che ci garantisca una politica più trasparente e non invasiva: scommettiamo insomma su meccanismi impersonali e neutri. Temo però che nulla, tranne una pubblica opinione agguerrita, possa riuscire a tenere a bada la voracità degli Stati…
Lei dice a proposito dei populismi che la “nuova” dicotomia che propongono tra popolo ed élite corrotta dal potere è valida in larga misura, ma viene riciclata come forma occultata di legittimazione di nuovi tipi di élite. Eppure, il neoliberismo vorrebbe proprio (e per fortuna!) mettere il più possibile tra parentesi il predominio di chi ha il potere politico per dare autonomia ed importanza agli individui e alla loro iniziativa, privilegiando insomma anch’esso il “basso” contro l'”alto” della società. Come distinguere quando questa divisione è veramente liberale e quando non lo è?
Dove c’è politica, c’è qualcuno che domanda e c’è qualcuno che obbedisce. Quando arriva un nuovo politico la prima cosa che fa è dire che tutti i suoi predecessori erano corrotti e non interpretavano correttamente l’interesse del popolo – che lui, va da sé, conosce invece alla perfezione. Questo è tristemente normale. Ma in questo presentarsi da parte dei politici emergenti come i portavoce legittimi — loro sì — della gente contro una élite arroccatasi su sé stessa c’è poco di liberale. In realtà, questi leader offrono una speranza di salvezza: “seguiteci, e arriverà il paradiso!”. Paradiso al quale l’ingresso è precluso solo da una cricca di malvagi: sgominata quella, tutto andrà per il meglio.
Il liberismo, paleo- o neo- che sia, non promette salvezza. Sa che non esistono bacchette magiche, che non c’è modo di vivere in un mondo perfetto. Vuole limitare nel modo più rigoroso il potere politico, perché pensa che ciascuno abbia invece il diritto di provare a perfezionare, un poco, nei limiti del possibile, il suo mondo.